1. Materialismo?
    Appunti sul fondamento, e l'onere della prova

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    marx-pun-historical-materialism



    Introduzione


    Molto spesso capita nelle discussioni di cui siamo partecipi, o che osserviamo da spettatori, il ripetersi di una obiezione inconsistente all'ateismo. Quante volte ci è capitato infatti di sentire (o di dire!) "[...] beh, provami che Dio non esiste!", e di ricevere come risposta "Sei tu ad avere l'onere della prova! Sei tu che parli di 'sto "Dio"!".
    Ok, forse non capita proprio tutti i giorni in questi termini, però, a chiunque è interessato a queste tematiche, sarà capitato almeno una volta di incontrare una persona dalla fede semplice, che ripete questa obiezione, quasi come un mantra.
    Eppure la risposta dell'interlocutore "ateo" è corretta: l'onere della prova spetta a chi afferma qualcosa. Altrimenti dovremmo credere alla veridicità (fino a prova contraria) delle scie chimiche, dell'energia orgonica ecc.ecc.
    In fondo questo principio è affermato anche dal nostro diritto penale: è l'accusa a dover dimostrare la colpevolezza dell'imputato, e non viceversa l'imputato a dover dimostrare la propria innocenza. Quello che si richiede in sostanza è il ragionevole dubbio sulla colpevolezza, secondo l'adagio "quando c'è il minimo dubbio, non ci sono dubbi".
    Siamo quindi davanti alla necessità di ammettere il materialismo metafisico? O ci sono altre obiezioni più cogenti?


    L'onere della prova


    Ogniqualvolta diciamo qualcosa positivamente, dovremmo essere capaci di provare la veridicità della nostra affermazione. Il più delle volte non serve nessuna dimostrazione, poiché siamo d'accordo sui presupposti, sulle analisi fatte da esperti che si dedicano esclusivamente al campo di cui discutiamo. Per tante questioni però tale consenso non c'è in parte o non c'è per niente. Per districarsi tra i problemi nel mondo delle scienze empiriche si procede per esperimenti ripetibili e calcoli matematici, nel mondo filosofico per necessità logica.
    Eppure in filosofia non esiste solo la logica: la logica è un metodo, non un contenuto, ma anzi, serve proprio a verificare la consistenza dei contenuti con i presupposti di partenza. Già, perché ogni impostazione filosofica ha dei presupposti di partenza: il problema nasce quando si di...

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    Last Post by Sesbassar il 15 Feb. 2015
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  2. Paglia e fango

    AvatarBy Sesbassar il 9 May 2014
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    Se s.Tommaso d'Aquino aveva chiamato paglia la sua Summa Theologiae, necessariamente ciò che scrivo io qui è fango. Per non dire di peggio.

    Mi consolo pensando che forse con tanto fango e un po' di paglia una piccola casupola, per quanto povera e indecente, si possa sempre costruire...
    Last Post by minstrel il 25 May 2015
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  3. Incomprensioni

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    Ci sono personaggi della storia del pensiero che stanno simpatici e personaggi che invece stanno antipatici a priori. Perché? Mah, bias personali, abbondanti leggende nere circolanti sul loro conto, il fatto che facciano parte di una religione "scomoda", le ragioni sono molteplici. Fatto sta che alcuni di questi personaggi vengono colpiti dalle più furiose invettive, e accusati di ogni male.

    Questo è il caso, ad esempio, di Agostino d'Ippona, più conosciuto come Sant'Agostino, vescovo nord-africano della chiesa cattolica, nato il 354 a Tagaste e morto a Ippona nel 430. Filosofo di estrazione platonica ebbe un periodo in cui si interessò al manicheismo, fino a quando S. Ambrogio (vescovo milanese) non lo convinse a rileggere le sacre scritture cristiane.

    Vi faccio un esempio di ciò che accade sovente al povero Agostino.

    Nietzsche ha detto: "gli uomini giungono in realtà tanto piú lontano con il loro intelletto che le donne".

    Maschilista eh? Porco che non è altro! "Vekogna! Mortozzompi!" Tutti gli atei sono dei misogini infami... O no?
    Avete notato una cosa? No? Rileggete bene... Ecco ...così! Già, non c'è la fonte di quello che ho scritto. Da questo già potete dedurre una cosa, che avrei potuto benissimo inventarmi la frase. E se vi dico che non è del tutto inventata ma che si trova davvero in un libro di Nietzsche? Controllate il 411° aforisma di "Umano troppo umano".

    Con-trol-la-te-lo. Non fate finta.

    Letto? Avete trovato la frase che ho citato? Se sì allora avrete notato almeno tre cose: 1) il verbo giungere usato da Nietzsche non è coniugato al presente indicativo, "giungono", ma al presente congiuntivo "giungano". Certamente ho dovuto cambiare coniugazione, altrimenti avreste potuto mangiare la foglia, il congiuntivo suona troppo dubitativo. Volevo che Nietzsche sembrasse proprio un misogino, non uno che "forse sì forse no". Ecchediamine. 2) Ho liberamente aggiunto un "che le donne" esplicativo, sempre per evitare che foste invogliati a cercarla, perché avesse una coerenza interna che sfruttasse la vostra pigrizia. 3) la frase è del tutto e brutalmente estrapolata dal contesto. In realtà leggendo l'intero aforisma si capisce chiaramente che il buon vecchio Federico sta dicendo esattamente il contrario.

    Bene, sappiate che se la gente si premurasse di controllare le citazioni di Sant'Agostino almeno quanto io ho fatto in questo (breve) esercizio, probabilmente ci sarebbe meno odio nei suoi confronti. Vi voglio far vedere fino a dove arriva la disonestà intellettuale però.

    Date un'occhiata ...

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    Last Post by Sesbassar il 17 April 2014
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  4. Dolor contra Dolorem

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    "Se Lutero definiva la morte di Cristo mors contra mortem, allora il dolore di Dio è dolor contra dolorem. Se ora la mors contra mortem equivale alla risurrezione, il dolor contra dolorem è l'amore di Dio, l'amore che toglie il nostro dolore." (Kazoh Kitamori, Teologia del dolore di Dio, Queriniana, Brescia 1975, p. 34)


    Davanti al dolore innocente l'unica parola opportuna è il silenzio. Il silenzio del Cristo che spira sulla Croce, il silenzio portato dalla morte improvvisa di un caro, quell'incertezza che lascia senza parole, il silenzio nei luoghi mortiferi in cui l'umanità ha annientato la propria umanità.
    Davanti al dolore dell'umanità abbandonata quale parola potrebbe risollevarla, consolarla, quale mano potrebbe asciugarne le lacrime? Non abbiamo mai parole sufficientemente dignitose per parlare con chi soffre. E non rimane che il silenzio.

    Cosa abbiamo da dire noi cristiani sul dolore? Che non sia già un bolo masticato e ri-masticato, ormai insapore, privo di consistenza? Possiamo dire qualcosa che non sia scontato, insensibile, inopportuno?

    Penso di sì.

    Noi cristiani «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Il nostro Dio ha sofferto, e con la sua sofferenza ha dato un senso anche alla nostra. Il nostro Dio è morto, e morendo ha dato un senso anche alla nostra morte, per quanto insensata e inaccettabile essa sia.
    La Sua più grande dimostrazione di amore nei confronti dell'umanità non è stato il risparmiare la vita dei suoi persecutori e assassini, ma il rendersi uomo, vivere le nostre tribolazioni, lavorare per guadagnare il pane quotidiano, capire il valore della vita dei propri cari quando essi venivano a mancare. Il nostro Dio ha pianto.

    E ancora piange i suoi figli, ed essi piangono per Lui:

    «Gli uomini vanno a Dio nel suo bisogno
    Lo trovano povero, umiliato, senza tetto né pane
    Lo vedono soffocato dai peccati, dalla debolezza, dalla morte.
    I cristiani stanno accanto a Dio nella sua sofferenza»
    (Dietrich Bonhoeffer, Cristiani e pagani, da Resistenza e Resa)

    E non è solo poesia, è vera e propria teologia, se teologia significa ancora “intelligenza della fede”, cioè la comprensione razionale del rapporto che Dio ha con noi. Se Dio entra in contatto con noi e nel farlo soffre, allora questa sofferenza deve avere un corrispettivo concetto teologico. E normalmente se ne è parlato in termini di “kenosi”, cioè l'abbassamento di Dio dalla sua realtà divina impassibile, alla nostra realtà umana.

    Ma ancora non si è portato questo concetto alle sue conseguenze più estreme.

    Dio nella Croce si svuota di sé stesso, rinuncia a sé stesso, e questa rinuncia non è indolore, anzi, essa è ...

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    Last Post by Sesbassar il 19 Nov. 2013
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  5. Lettera a un dubbioso

    AvatarBy Sesbassar il 20 Aug. 2013
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    Caro Francesco*

    Innanzitutto voglio dirti che ho una grande stima di te, non solo per il fatto che hai una zucca ottimamente funzionante, ma anche perché sei onesto come pochi.
    Dentro la Chiesa ci sono molte persone "credenti" in realtà solo per affiliazione ideologica, perché intendono attribuire alla Chiesa una funzione (di "destra" o di "sinistra" che sia) che essa non ha.
    La Chiesa infatti è testimone del passaggio di Dio sulla Terra, non un'agenzia partitica. Proprio per questo voglio provare ad aiutarti nel tuo cammino proponendoti quello che penso; della Chiesa faccio parte anche io e a maggior ragione davanti ad una persona in dubbio mi sento chiamato a fare da testimone.

    1) La fede

    Spesso senti parlare della fede come dono, però solitamente dietro questa affermazione si cela un'idea di fede come "insieme delle verità di fede" (Incarnazione, Mistero della Trinità, ecc.ecc.): questo è a tutti gli effetti solamente una delle dimensioni della fede (quella che in teologia viene chiamata fides quae creditur), che ha il proprio completamento nella fides qua creditur, cioè l'atto di fede stesso.
    A te non manca di certo la conoscenza della prima, eppure la seconda non solo è fondamentale, ma ha essa stessa un fondamento che non è umano.

    La fides qua creditur, cioè l'atto di fede, non nasce da un movimento sentimentale/razionale/istintivo dell'uomo. Nasce dalla rivelazione di Dio. E' Dio a rivelarsi e ad intraprendere un rapporto con noi che genera la "fede".

    2a) La Rivelazione

    Potremmo rimanere anni a discutere sulla veridicità della rivelazione cristiana, sulla sua unicità soteriologica o altro, ma il nocciolo della discussione sarebbe: posto che la rivelazione cristiana corrisponde alla verità di Dio, perché Dio dovrebbe rivelarsi? E questa rivelazione è un bene per l'uomo?
    Potrei azzardare dalla mia piccola posizione di essere umano, che se Dio si rivela non è per donarci una verità speculativa, ma per darci l'opportunità di rapportarci a Lui senza mediatori, e cioè per farci giungere direttamente alla "fonte".
    Poiché è Lui stesso la fonte di tutto, il Vivente, un rapporto diretto con Lui non può che essere garanzia di salvezza, che stando all'etimo latino "salutis" è indice di un condizione positiva permanente per l'uomo: la gioia.

    2b) La Ri-velazione

    Eppure per noi cristiani, Cristo non è solo rivelatore della realtà divina. Cito da un ottimo tomo che spero tu abbia letto: "[C]iò che a prima vista sembrerebbe costituire la più radicale rivelazione, e in un certo senso la rivelazione effettivamente valida per sempre, la rivelazione per eccellenza, rappresenta contemporaneamente il sommo occultamento e nascondimento. Ciò che a prima v...

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    Last Post by Sesbassar il 20 Aug. 2013
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  6. La Parola dietro le parole

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    «Dio è in queste chiavi e tonalità»
    Machine Head, Darkness Within


    Partiamo da questo verso per iniziare la nostra riflessione. Che la musica per la nostra cultura ebraico-cristiana sia una forma di teologia possiamo dedurlo dal fatto che nella stessa Scrittura è presente un intero libro composto di soli canti (con tanto di indicazioni per i musicisti!).
    Da tempo immemore il popolo ebraico ha cantato il proprio rapporto con il Signore, e nel cristianesimo abbiamo attinto da questa storia facendo del canto una delle forme artistiche che vengono utilizzate durante le celebrazioni.
    Quello che più mi preme notare è però come anche nelle parole profane si nasconda una voce che può stimolare alla fede, e qui la citazione che ho scelto è più che adatta: nella canzone dalla quale è stata tratta non ha il significato che le sto dando io ora, poiché nella canzone si parla della musica come salvatrice. Io invece uso questa citazione per portarla a sostegno del fatto che il Salvatore si mostra nella musica.
    Non è un caso che i Machine Head riconoscano nella musica una funzione salvifica, e a mio modo di vedere se la musica ha tale funzione è proprio perché in essa si nasconde un messaggio di bellezza, armonia, elevazione spirituale, che arriva dritto alla nostra coscienza partendo proprio dalla immensa sorgente creativa che è il Creatore.
    «La fede cristiana non si accontenta del dejà vu, di quanto d’ovvio e scontato si respira negli ambienti religiosi. È capacità di vedere oltre, di andare oltre» dice Adolfo Russo, centrando, a mio modo di vedere il cuore della questione: essere cristiani non significa far parte di movimenti/partiti/associazioni che hanno la preoccupazione di dimostrare di essere cristiane, bensì è dare uno sguardo sempre nuovo al mondo.
    È tale “sguardo” che permette di re-interpretare in modo religioso delle parole altrimenti profane: perché in tale “profanità” (non profanazione eh!) si riconosce invece una profonda religiosità. Profonda perché se la “profanità” attinge da ciò che è più propriamente umano, non può non toccare ciò che è universale, e non può non giungere alla Sorgente. Teniamo conto che un altro intero libro della Bibbia è stato riconosciuto come ispirato, eppure non nomina mai Dio, il Cantico dei Cantici. Dire però che in quel libro non si parla mai di Dio sarebbe un’affermazione ben più temeraria, e indifendibile.
    Se possiamo “vedere oltre” all’apparenza possiamo vedere in queste parole (o suoni) la Parola di Chi ci interpella attraverso il nostro simile, e ci chiede di rivedere continuamente l’idea che abbiamo di lui, di noi, e di Lui.

    L’Apostolo rimprovera ai pagani (passatemi il termine generico) proprio di non aver saputo cogliere ciò che c’è di divino nella creazione, senza confonderla con il Creatore: «ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manife...

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    Last Post by Sesbassar il 4 July 2013
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  7. Il senso profondo del Natale
    Nascita, morte e rinascita

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    Tags
    Natale
    teologia della croce
    By Sesbassar il 29 Dec. 2011
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    Una lamentela che sempre più spesso si sente esprimere (da parte sia di credenti che di non credenti) è che il Natale è ormai una festa puramente consumistica e buonista: "a Natale bisogna essere più buoni", "cosa ti hanno regalato per Natale?" ecc. ecc. Effettivamente queste frasi sono le più gettonate durante il periodo natalizio.
    Ma è questo il vero senso del Natale? Vi è qualcosa di più? In che modo riscoprire questo "di più"?

    Il Natale è la festa della nascita di Gesù Cristo per i cristiani, ma per gettare una luce più vera su questa nascita può essere il caso di lasciarsi ispirare da due immagini:

    foto_chiesa_12

    Icona_Nascita+di+Ges%C3%B9_Wikipedia



    In queste due immagini è evidente il significato della nascita di Gesù Cristo. Sia nella prima che nella seconda raffigurazione, Gesù bambino è rappresentato come un morto, avvolto nelle fasce come in un sudario, nella seconda sembra persino adagiato su un sarcofago.
    "Il Nuovo Testamento nella sua totalità tende alla croce e alla resurrezione (H. U. von Balthasar, Teologia dei tre giorni, Queriniana, 2011, p. 31), e ancora "chi dice incarnazione dice croce" (ibid., 34).
    Anche la nascita del Cristo è vista alla luce della morte di croce e della Resurrezione. Il bambino riceve in dono dai magi l'incenso (segno del suo sacerdozio), l'oro (segno della sua regalità) e la mirra, una resina usata per le imbalsamazioni (segno della sua futura morte) (Mt 2,1-11). A ragione Kähler poteva dire che gli evangeli sono "racconti della passione preceduti da un'ampia introduzione".

    Se il Natale è compreso seriamente come inizio della tragedia di Dio, della kenosi più totale, in cui è Dio stesso a farsi portatore delle sofferenze dell'umanità, per trasfigurarle nella Sua Resurrezione, allora si può iniziare a pensare ad un Natale non consumistico e tantomeno buonista. Più si separa, invece, la nascita del Cristo dal suo grido dalla Croce, più si ripiomberà nella immagine falsata che oggi si ha del Natale.
    Tutta la vita del Cristo è un lento cammino verso la Croce, dove lo aspetta il diavolo, con la sua tentazione più grande: la disobbedienza alla volontà del Padre. Nella croce Cristo risponde da uomo adulto alla tentazione, e sceglie l'obbedienza.
    Se festeggiamo la Sua nascita, infatti, è unicamente perché da questa nascita è re-iniziata la storia della salvezza, se festeggiamo il Gesù bambino è solo perché Gesù adulto ha obbedito fino alla morte di croce (Fil 2,8)...

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    Last Post by Sesbassar il 29 Dec. 2011
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  8. L'amore di Dio fondato sul dolore
    cosa ci dice la teologia del dolore di Dio oggi?

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    La teologia del dolore di Dio, di Kazoh Kitamori, è a mio avviso uno degli esempi più fervidi di una speculazione teologica che non è fine a sé stessa, ma che riesce a dire qualcosa sulle nostre vite.
    Una teologia capace di rivedere l'evento Gesù Cristo, fondandovi sopra l'intuizione più sottovalutata nel mondo teologico del '900: l'amore di Dio è fondato sul dolore.
    Questa intuizione permette diversi rilievi, teologici, etici, escatologici, che Kitamori accenna appena, ma che alla luce della situazione attuale ci permette di dire qualcosa se non di nuovo, almeno con un sostegno diverso e più forte (a mio avviso).

    Se l'amore di Dio è fondato sul dolore, allora il dolore stesso perde la sua statura puramente negativa: ciò che non è assunto non è redento, dicevano Origene, Tertulliano e Gregorio di Nazianzio. Dio assume in sé anche il dolore, e lo rende fondativo del suo amore.
    Non il dolore fisico però: abbiamo annotato la volta scorsa come la teologia del dolore di Dio non sia un patripassianismo. Il dolore è la caratteristica speculare all'amore infinito e totale di Dio: l'amore che va ogni oltre negatività, oltre ogni peccato, che supera ogni distanza, che riesce a vincere anche la barriera ultima, la morte.
    Se questo dolore intimo di Dio è alla radice del suo Amore, in quel dolore anche i nostri dolori vengono trasfigurati, come il suo dolore è trasfigurato nella Croce: il "brutto" del Crocefisso, emaciato, flagellato, insanguinato, che diventa "bello", poichè rivela l'Amore che Dio è.
    Ed allora l'etica conseguente è un'etica trasfigurata anch'essa, ove l'uomo-Adamo (l'uomo che rifiuta liberamente il progetto di Dio) e l'uomo-in-Cristo (l'uomo che fa suo il dolore di Dio) differiscono:
    dove l'uomo-Adamo vede una "cosa" senza più vita né speranze in stato vegetativo
    l'uomo-in-Cristo vede una persona bisognosa di cure, di affetto, di consolazione, di dialogo
    dove l'uomo-Adamo vede un'ammasso di cellule
    l'uomo-in-Cristo vede una persona che va aiutata a crescere, perché incapace di difendersi da sé
    dove l'uomo-Adamo vede un criminale immeritevole di pietà
    l'uomo-in-Cristo vede una persona che ha bisogno di una buona parola, del lieto annuncio
    dove l'uomo-Adamo vede una ragazza-madre che cresce un figlio senza un padre
    l'uomo-in-Cristo vede una Vergine
    dove l'uomo-Adamo non vede un futuro
    l'uomo-in-Cristo vede l'Amore che è più forte di qualsiasi cosa.

    Edited by Sesbassar - 14/2/2015, 16:03
    Last Post by Sesbassar il 25 Sep. 2011
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  9. Teologia del dolore di Dio
    Prospettive teologiche e filosofiche

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    Stimolato da un libro di Kazoh Kitamori (teologo giapponese riformato), pongo alcune riflessioni sui temi che ritengo più caldi e che ho riscontrato finora dalla lettura del suo libro più famoso "Teologia del dolore di Dio".

    1) Ira di Dio e Dio che è Amore

    Kitamori presenta il dolore di Dio come momento dell'antitesi tra "ira di Dio" e "amore di Dio". Poichè Dio ama il soggetto della Sua giustizia (l'uomo), non porta alle estreme conseguenze la Sua giustizia, ma la compie nell'amore per l'uomo con l'Incarnazione e la redenzione dell'uomo: "Il Dio che deve consegnare il peccatore alla morte combatte con il Dio che ama il peccatore. Il fatto che in entrambi i casi si tratti dello stesso Dio, costituisce appunto il dolore di Dio. Qui in Dio una volontà combatteva l'altra" (K. Kitamori, Teologia del dolore di Dio, Queriniana, Brescia 1975, p. 35), e ancora "Il Signore, che guarisce le nostre ferite inflitteci dall'ira di Dio, prende su di sé queste ferite causate dall'ira di Dio" (loc. cit..).

    A tal proposito devo fare alcuni appunti. Io non credo che esista un "ira" di Dio (secondo il significato di "ira" che riscontriamo nei nostri vocabolari). Certamente nell'A.T. si parla di un Dio che si adira con il suo popolo, e che lo condanna a pene più o meno gravi. Ma andrebbe anche esaminato il contesto storico in cui questo popolo accoglieva la Rivelazione progressiva di Dio (che si compirà completamente solo in Cristo). Un popolo che immaginava Dio come un re a capo di una corte (cfr. Gb 1,6), che deve per forza essere giusto nelle sue retribuzioni (e questo assioma della sapienza classica presente in modo massiccio in Proverbi, verrà messo in discussione proprio in Gb e Prv stesso).
    Il termine "ira" è un termine poderosamente antropomorfo, che va depurato per coglierne la vera essenza. A mio parere tale essenza viene più propriamente affermata con il termine "giustizia", il quale è meno equivocabile di "ira", e che riconduciamo a un comportamento ammirevole, e non deplorevole.
    Il Dio "irato" è il Dio giusto, non un Dio volubile e capriccioso, ma l'esatto contrario.
    Secondo appunto: dai rilievi di Kitamori, Dio appare come un'entità schizofrenica. Il Padre appare come un Dio giusto, Cristo come il Dio che ama. Io immagino che Kitamori non intendesse una distinzione così evidente di proprietà. Anche il Dio Padre ama, e anche il Dio Figlio è giusto. La giustizia è un attributo di tutto Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, non solo del Padre. E l'amore è l'essenza di Dio stante la prima lettera di Giovanni (1 Gv 4,16), quindi proprio la substantia che è comune alle tre Persone della SS. Trinità, per definizione...

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    Last Post by Sesbassar il 7 Aug. 2011
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  10. Appunti per una decisione
    Chi è senza Dio?

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    Quante volte. Quante volte ci è capitato di discutere con amici (credenti o non credenti) e di cavarne fuori discussioni lunghe, e che magari a volte degenerano pure in una litigata. Forse mille, forse un milione, forse nessuna o forse di più.
    Fatto sta che tale situazione è abbastanza generalizzata nella nostra società pluralista: nei talk show (ovvero le riproposizioni televisive delle discussioni più becere delle quali saremmo capaci) gli invitati vengono rigorosamente scelti in base alla propria professione di fede o mancanza di fede.
    Discussioni, litigate, urla, strepiti, tifo da stadio. Pare proprio che tra atei e credenti vi sia un conflitto quando si parla di etica.
    Forse è vero in parte, ma possiamo vedere le cose da un'altra prospettiva.

    Qualcuno forse si chiederà cosa centra il titolo con l'introduzione. In ambiente "morale", ci troviamo spesso davanti a decisioni difficili, matasse da sbrogliare. E' a quel punto che immaginiamo di dover agire in un certo modo perchè credenti/atei/buddhisti/ecc.ecc.

    Muovendoci sul solco della spiritualità cristiana più antica (ma non per questo obsoleta) scopriamo però che non sono queste le vere alternative che abbiamo davanti di fronte ad una determinata scelta.
    Certo, siamo abituati agli scontri ideologici, e, ormai assuefatti dai talk show e dai forum/blog sul web in cui imperversano discussioni ideologiche, pensiamo non sia possibile immaginare un modo diverso di visualizzare il mondo.

    Eppure.

    Per gli antichi padri spirituali (S.Giovanni Crisostomo, Evagrio Pontico, S.Agostino e tanti altri ancora!) era ben chiaro invece che il terreno di scelta non fosse così ben delineato ideologicamente, ma che fosse ben più sfumato.
    Al centro del conflitto non vi era una contrapposizione laici/cattolici, bensì una contrapposizione tra la persona che si è legata al Dio che può garantire vita e felicità e la persona che si è legata ad un idolo (dal quale certamente pretende vita e felicità, ma che non può garantire permanentemente).
    Perchè questi sono gli affanni tipici di ogni uomo: essere felici, liberi dalle preoccupazioni date dagli altri e dalla più o meno vicina Sora Morte. E sono queste le preoccupazioni che desideriamo allontare grazie ai nostri legami.

    Ovviamente, tali legami non sono così evidenti nè per la persona in questione, nè tantomeno per coloro che le stanno vicino.
    Per gli antichi però era proprio questo legame fondamentale (maturato per tutta la vita, e stabilizzatosi nell'età matura) che entrava in gioco durante le nostre decisioni: quelle più immediate (che di solito definiamo "spontanee"), e quelle più meditate.
    Certo, nelle scelte immediate il legame diviene un po' più evidente, perchè il tempo tra decisione e azione è così limitato che non ci si accorge quasi di aver preso una decisione. Quindi si decide per "abitudine". Ovvero si sceglie come ci si è abituati a scegliere. Com...

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    Last Post by Sesbassar il 31 Jan. 2011
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