Replying to Un'altra prospettiva sull'argomento cosmologico

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  1. Posted 28/10/2015, 20:23

    Introduzione



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    Tempo fa ho scritto brevemente sulla validità e utilità della teologia naturale, cioè su quella disciplina del pensiero che, cercando il senso e fondamento della realtà diveniente, giunge ad affermare, attraverso diversi argomenti, l'esistenza di una causa prima, ultima, incausata, atemporale, immutabile, e a identificarla con il Dio dei principali monoteismi (per quelli che sono i tratti comuni del Dio di questi teismi). Oggi vorrei approfondire un aspetto di questa disciplina, per quanto è possibile approfondirlo in un articolo su un blog, partendo da qualche domanda suscitatami da alcune critiche comuni alla teologia naturale.
    Leggendo il capitolo dedicato all'argomento cosmologico nella “Philosophy of Religion – An introduction” di William Rowe, mi sono imbattuto su una critica che l'autore fa dell'argomento, e cioè che esso sta e cade con l'accettazione o meno del “principio di ragion sufficiente” (abbr. PRS), il principio (formulato più compiutamente da Gottfried Leibniz) secondo cui ogni ente contingente deve avere una ragione sufficiente (e quindi una causa) che ne spieghi l'esistenza .
    Rowe non critica il concetto di causa, bensì il fatto stesso che il PRS sia un principio ragionevolmente stringente per chiunque vi rifletta, e quindi essendo la base di ogni argomento cosmologico (vedremo che in realtà non è proprio così), gli argomenti cosmologici nella loro integrità non sono necessariamente cogenti. Certo, c'è chi riflettendo a riguardo giunge a non poter negare il PRS, e quindi può ragionevolmente accettare gli argomenti cosmologici che da esso discendono. Ma non essendo per Rowe una verità di ragione (come il principio di non-contraddizione, abbr. PNC), impossibile da negare per principio, né una verità di fatto, e quindi accettata implicitamente da tutti, non si può considerare gli argomenti cosmologici come delle dimostrazioni efficaci dell'esistenza di Dio.
    Prima di giungere al nodo della questione vorrei innanzitutto fare una parentesi epistemologica, per capire la base degli argomenti cosmologici, poi vedremo la critica ad essi, e successivamente potremo fare una proposta di sintesi tramite il pensiero di un autore italiano, Gustavo Bontadini.


    Deduttivismo e induttivismo


    Quando argomentiamo di solito non ci accorgiamo nemmeno delle strategie che usiamo per mostrare la verità delle nostre affermazioni. Eppure, da Aristotele in poi, quando la logica divenne una scienza, la tecnica di argomentazione è oggetto stesso di conoscenza.
    Per quel che riguarda gli argomenti razionali ci sono due metodi principali per dare fondamento alle proprie affermazioni: il primo è chiamato deduttivo, e di solito parte da affermazioni generali (più o meno condivise) e attraverso il sillogismo arriva ad affermazioni particolari (gli uomini sono mortali + Socrate è un uomo = Socrate è mortale); il secondo è chiamato induttivo, e a differenza del primo, parte invece da affermazioni particolari, instaurando dei nessi tra le diverse esperienze empiriche, onde giungere ad affermazioni generali (ho visto 1,2,3..n corvi neri = i corvi sono neri). Entrambi questi metodi sono problematici però.
    Il metodo deduttivo è logicamente stringente, la sua problematicità risiede nelle premesse dalle quali si parte: se partiamo con delle premesse ambigue, tendenziose, o, semplicemente, false, ci ritroviamo con un argomento formalmente corretto, ma privo di alcun valore. Ad esempio: (a) tutti gli alberi hanno foglie verdi + (b) l'acero rosso ha foglie rosse = (c) l'acero rosso non è un albero. Evidentemente (c) è un'affermazione falsa, seppur la forma dell'argomento sia corretta, e questo perché la premessa (a) è falsa (o, per meglio dire, incompleta). Il valore di un argomento deduttivo, quindi, risiede tutto nella nostra capacità di costruire delle premesse incontrovertibili (non proprio una cosa da nulla, soprattutto se non parliamo della realtà empirica).
    Il metodo induttivo invece ha un enorme problema per quel che riguarda le discussioni metafisiche: che il proprio valore è unicamente probabilistico. Come il buon Russell ci ha mostrato con il suo esempio del tacchino induttivista, l'inferenza per enumerazione non porta necessariamente ad una conclusione logica. L'esempio che ho fatto poc'anzi infatti sarebbe messo in discussione anche solo con il ritrovamento di un corvo bianco (perché albino magari). Dovremmo quindi rivedere tutta la nostra conoscenza, anche per un solo caso contrario, a meno che non lo escludessimo a priori a causa delle nostre esperienze precedenti (non proprio il metodo più trasparente di selezione euristica), o a meno che non ci esprimessimo in forma probabilistica, e, per rivedere l'argomento precedente, formularlo più o meno così: “ho visto 1,2,3...n corvi neri, quindi, probabilmente, quasi tutti i corvi sono neri”.
    Gli argomenti di tipo cosmologico per inferire l'esistenza di Dio sono solitamente del primo tipo, quindi il nostro lavoro sarà principalmente quello di dare delle premesse che non siano problematiche di per sé stesse. Ed è qui che sbattiamo il muro con la critica.


    La critica al concetto di causa e al PRS


    La critica più importante al concetto di causa nella modernità è indubitabilmente quella di David Hume. Non solo per la qualità (su questa non ho elementi per commentare), ma di sicuro per la ricaduta che ha avuto nel panorama filosofico moderno europeo.
    Il suo scritto più influente, il “Trattato sulla natura umana”, si sofferma infatti sul problema specificatamente, analizzando non solo il concetto di causa, rilevandone i nodi principali, ma anche il PRS, da lui definito “tutto ciò che inizia ad esistere deve avere necessariamente una causa della propria esistenza” (p. 175). Per quel che riguarda le cause, egli rileva che per la determinazione di una causa, non si debba cercare tra le qualità degli oggetti in questione, e “poiché il potere di produrre con cui un oggetto produce un altro non può mai essere scoperto semplicemente dalla loro idea” (p. 157), risulta chiaro che le cause e gli effetti dipendano dalla relazione che intercorre tra gli oggetti, come conosciuti dall'esperienza, e quindi devono soddisfare alcuni criteri: 1) gli oggetti devono essere contigui, 2) la causa deve precedere l'effetto (anche se di questo Hume ammette una minore importanza), e 3) la loro connessione dev'essere necessaria.
    La necessarietà del nesso tra cause ed effetto però non consta nel PRS, poiché da Hume tale principio è considerato non evidente. Se esso viene considerato un'intuizione valida, il motivo è da ricercarsi più in una sorta di pigrizia abitudinaria, che non per una qualche necessità logica. Per Hume, infatti, le relazioni tra oggetti che producono conoscenza intuitivamente certa sono classificabili tutte in una di queste quattro categorie di rilevazione empirica: rassomiglianza, proporzione in quantità e numero, gradi di qualunque qualità, e contrarietà. Niente di tutto ciò ha però consistenza ontologica, i nessi di causa-effetto sono rintracciati empiricamente, e niente assicura che lo stato delle cose sia sempre il medesimo: quello che possiamo dire sulle cause di qualcosa è solo ciò che è relativo a “una percezione immediata da parte della nostra memoria o dei sensi, oppure con un'inferenza da altre cause; di cui, di nuovo, dobbiamo accertarci, o con un'impressione presente, o con un'inferenza dalle loro cause, e così via, fino ad arrivare a un qualche oggetto che possiamo vedere o ricordare” (p. 183).
    La difesa del PRS intrapresa dai filosofi a lui precedenti, Hobbes, Clarke e Locke, implicitamente presuppone ciò che è invece messo in discussione: gli argomenti di questi filosofi “soggiaciono tutti, infatti, al medesimo errore, e derivano tutti dallo stesso circolo vizioso. È sufficiente osservare che quando escludiamo tutte le cause, noi le escludiamo realmente e non presupponiamo che il niente, oppure l'oggetto stesso, sia cause dell'esistenza. […] Se tutto deve avere una causa, ne segue che, escludendo le altre cause, dobbiamo accettare l'oggetto stesso, oppure il niente, come causa. Ma questo è il nocciolo stesso della questione, ossia sapere se tutto deve avere una causa o no: per ragionare correttamente, dunque, non dovremmo mai assumerlo come garantito” (p. 181).


    Gustavo Bontadini e l'inferenza dal PNC


    Diamo per buona la critica di Hume al concetto di causa. Si potrebbe discuterla, e di certo Hume non ha alcuna autorità per essere considerato l'ultimo ad avere parola in merito, ma per il gusto di argomentare diamola per scontata. Ragioniamoci: se Hume ha ragione, le cause sono rilevabili solo empiricamente, e il PRS non è una verità necessaria, ogni dimostrazione dell'esistenza di Dio che si basi sull'argomento cosmologico va in frantumi. Perché? Perché se ogni causa ha bisogno di essere osservata, o deve fare riferimento a un'osservazione (o a un ricordo di un'osservazione), è praticamente impossibile inferire l'esistenza di una Prima Causa, poiché i nessi di causa-effetto considerati da Hume sono contingenti, non necessari.
    Dicevo, lasciamo le criticità a parte (Ed Feser se ne occupa ottimamente qui comunque), e focalizziamoci sulle alternative. Se non possiamo fare affidamento sui nessi di causa-effetto, c'è un modo per formulare un argomento cosmologico senza fare riferimento, esplicito o implicito, al PRS?
    Il filosofo italiano Gustavo Bontadini ne diede un esempio qualche tempo fa, infatti nel suo libro “Conversazioni metafisiche”, una raccolta di articoli o trascrizioni di conferenze, presenta una interessante variante dell'argomento cosmologico, della quale ho apprezzato principalmente che: 1) di per sè non è un argomento eccessivamente complesso, anche se bisogna avere una certa familiarità col lessico; 2) non fa alcun riferimento al concetto di causa classico, né al PRS, eludendo quindi a piè pari sia la critica di Hume, che le versioni più recenti che vi si ispirano. Vi invito a leggere per intero l'argomentazione che io riassumerò e semplificherò qui brevemente (cercando di rendere il più possibile giustizia all'originale): lo potete trovare in “Conversazioni metafisiche. Vol II”, da p. 189 a p. 194.

    Egli parte da considerazioni e premesse molto basilari, che, penso, nessuno s'immaginerebbe di mettere in discussione: 1) il PNC, “è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo” (Aristotele, Metafisica, Libro Gamma, cap. 3, 1005 b 19-20); 2) il divenire del mondo, constatato con i nostri sensi.
    Ora, il divenire degli enti non ci scandalizza solo perché ne esperiamo la relatività: gli enti possono essere o non-essere, ma questo ritmo di esistenza/negazione, non è considerato assoluto, cioè (obbedienti all'etimo) sciolto da legami, bensì ogni ente può esistere e smettere di esistere, e constateremmo questo divenire nel tempo: “il tempo è, infatti, l'elemento in cui i contraddittori (seduto, non-seduto; ritto, non-ritto) possono stare incontraddittoriamente” (p. 192).
    Eppure, se invece un oggetto qualsiasi venisse considerato in senso assoluto, a questo punto il suo non-essere-qualcosa diventerebbe un problema, poiché ci troveremmo davanti a una cosa che è e non-è sotto il medesimo punto di vista (quello della sua medesima esistenza). Ed è in questo senso che il divenire è contraddittorio per Bontadini, e anzi si presenta come la “stessa incarnazione della contraddittorietà (l'identificarsi del positivo e del negativo), come la smentita alla suprema e immediata identità: l'essere è” (p. 190). Il divenire degli enti smentisce il PNC, introducendo il non-essere di ciò che invece è, se, e solo se, si afferma l'identità tra il mondo intelligibile, cioè per come lo conosceremmo per diretta conseguenza del PNC, immutabile e incorruttibile, e il mondo sensibile, il quale invece viene conosciuto mediante i sensi, e nel quale facciamo esperienza del divenire.
    L'unico modo per sanare questa contraddizione tra intelletto e sensi, è affermare che l'esistenza della dimensione diveniente (problematica se assoluta) è relativa, contingente, rispetto alla dimensione dell'Essere immutabile, sovrasensibile e atemporale, ed entrambi sono momenti dialettici della Verità, i quali, smentendosi a vicenda, rimandano all'origine del divenire, e al fondamento dell'esistenza, cioè il Principio di Creazione.
    Il concetto di ragione sufficiente quindi non viene tirato in ballo da Bontadini: ciò che egli vuole spiegare è la contraddizione inaccettabile (appunto per il PNC) di un divenire considerato come fondamento ultimo della realtà, e cioè come assoluto, senza legami o dipendenza da altro. Non importa che i nessi di causa-effetto siano necessari o meno, ciò che importa è la sola constatazione empirica del divenire degli enti, e la sua contraddizione con il principio parmenideo-aristotelico di non-contraddizione.
    Questo tipo di argomento è cosmologico, infatti parte dalla constatazione della realtà, eppure non fa riferimento agli scogli problematici degli altri argomenti. Questo non significa che sia un argomento perfetto, e anzi, emergono diverse criticità (tutta la dimostrazione è più simile a un abbozzo che non a una dimostrazione vera e propria), eppure è un tentativo, un buon punto di partenza, dal quale prendere spunto e incominciare a lavorare, per ricercare la base più profonda di ogni argomento cosmologico.


    Bibliografia


    G. Bontadini, Conversazioni Metafisiche, Vol. II, Vita e Pensiero, 1971.
    E. Feser, The Last Superstition, St. Augustine Press, 2008; (in particolare dal capitolo “The Existence of God”).
    Feser, Scolastic Metaphysics, Editiones Scholasticae, 2014 (per una infarinatura di base dei concetti scolastici di causa, effetto, e per una critica alle obiezioni).
    W. Rowe, Philosophy of Religion – An introduction, Cengage Learning, 2007.
    D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, 2001.

    Per chi volesse approfondire il problema del Principio di Ragion Sufficiente:
    A. Pruss, The Principle of Sufficient Reason, Cambridge University Press, 2006.
    M. Della Rocca, PSR, Philosophers Imprint, Yale University, 2010.


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