Replying to Il Sabato Santo e la Croce come Axis Mundi

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  1. Posted 2/4/2015, 18:36



    Li strapperò di mano agli inferi,
    li riscatterò dalla morte?
    Dov'è, o morte, la tua peste?
    Dov'è, o inferi, il vostro sterminio?

    Os 13,14



    Introduzione


    Coerentemente con il periodo pasquale, propongo come spunto di riflessione un argomento poco trattato ultimamente. Sto parlando della discesa di Gesù Cristo agli inferi, documentata nel simbolo aquileiese e apostolico come articolo di fede ortodossa, che la Chiesa ricorda nel Sabato Santo.
    Quando si parla di inferno nel nostro immaginario abbiamo l'inferno dantesco, in cui i dannati che hanno rifiutato la fede in Cristo, in modi diversi, vengono puniti mediante pene e torture più o meno cruente. L'inferno è spesso considerato un luogo quasi fisico, anche se immateriale.
    Eppure ci sono delle precisazioni da fare a proposito. Innanzitutto l'inferno non è un luogo per la religione cattolica, bensì è «lo stato di definitiva autoesclusione dalla comunione con Dio e con i beati» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1033). Non c'è una divisione topografica nell'aldilà.
    In secondo luogo, non è di questo “inferno” che parliamo quando diciamo che Gesù è disceso agli inferi, e il grande teologo Hans Urs von Balthasar lo mise bene per iscritto nel suo capolavoro, “Teologia dei Tre Giorni” (Queriniana, 2011). L'inferno in cui è disceso Cristo è identificabile più con l'Ade della tradizione greca e lo sheol della tradizione biblica, e sarebbe «teologicamente errato proiettare il concetto neotestamentario (cristologico) dell'inferno all'indietro, nell'Antico Testamento, e porre, a partire da qui, questioni sul sabato santo che sono insolubili, perché poste in maniera sbagliata» (ibid., 153).
    L'inferno cristiano sarebbe piuttosto da considerarsi «un prodotto della redenzione» (p. 155), poiché «“prima” di Cristo (dove il “prima” è preso in senso oggettivo e non cronologico) non si può dare né un “inferno”, né un “purgatorio” (di un particolare inferno dei bambini poi non sappiamo nulla), ma solo quell'Ade (che può essere diviso in una zona inferiore e in una superiore solo speculativamente, mentre rimane oscuro il rapporto fra queste due zone), dal quale Cristo “ci” ha voluto liberare mediante la sua solidarietà con i morti (in senso sia corporale che spirituale).» (p. 158).
    Interessante notare come il concetto di “prima” a cui fa riferimento Balthasar non implica la venuta cronologica del Figlio, bensì la conoscenza personale di egli, e quindi un'accettazione o un rifiuto personali. Questo concetto difatti ha delle conseguenze, ma prima di parlarne vedremo brevemente la storia del "descendit", e altre ramificazioni del tema per avere un quadro più completo della questione.


    Storia del “descendit


    La prima attestazione del descendit in un simbolo di fede cattolica è nel Credo aquileiese (Denz n. 16), esposto dal Padre Rufino di Aquileia, nel 404 d.C.. Egli riportò nella sua Expositio in Symbolum, il testo per intero del credo che si recitava nella liturgia aquileiese, citando appunto «Credo[...] in Gesù Cristo, [...] [che] fu crocefisso sotto Ponzio Pilato e sepolto, discese agli inferi [descendit ad inferna]».
    La spiegazione che Rufino dà del senso della discesa è molto semplice ma efficace: «Cristo ha patito nella carne senza danno o offesa per la sua divinità ma al fine di operare la salvezza per mezzo della debolezza della carne, la natura divina è discesa nella morte, non per essere trattenuta dalla morte secondo la legge delle creature mortali, ma per aprire le porte della morte a quelli che grazie a lui sarebbero risorti. È come se un re si rechi ad una prigione ed entrato dentro apra le porte, sciolga catene e ceppi, infranga cancelli e chiavistelli, conduca fuori alla libertà quelli che erano incatenati e restituisca alla luce e alla vita quelli che sedevano nell’oscurità e all’ombra della morte (Sal 106, 10). Diremo allora che il re, certo, è stato in prigione, ma tuttavia non nella condizione che era stata di quelli che venivano tenuti in prigione: ma quelli vi erano tenuti per scontare le pene, egli invece c’è venuto per rimettere le pene.» (n. 15)
    Dopo Rufino la discesa di Gesù Cristo agli inferi diventa un tema classico dell'iconografia (per un'analisi interessante a riguardo consiglio la lettura di questo articolo), e si ritroverà anche nella riformulazione del simbolo degli apostoli fissata da San Cesario da Arles.
    Agostino ne parlerà in modo incerto nella sua terza lettera a Evodio (potete trovarla qui, è la n. 164), portando più domande che certezze, nonostante la ferma convinzione della veridicità della discesa agli inferi: «E' assolutamente evidente che il Signore, morto quanto alla carne, discese agl'inferi: non si può contestare la profezia che dice: Non abbandonerai l'anima mia negl'inferi. Di questo fatto ha data la spiegazione anche S. Pietro negli Atti degli Apostoli, affinché nessuno osasse intendere diversamente quella frase e non si può neppure obiettare nulla alle parole con cui il medesimo Pietro asserisce che Gesù sciolse i dolori dell'inferno, in potere dei quali era impossibile che restasse lui. Chi dunque, se non un incredulo, potrebbe negare che Cristo è stato agl'inferi?». Eppure molti lati del problema gli rimangono oscuri, come la sorte dei filosofi e saggi pagani, i destinatari della predicazione di Gesù agli inferi, i destinatari della sua azione salvifica di liberazione dai dolori, oppure le enigmatiche parole dell'apostolo Pietro in 1Pt 3,19-20 («E in spirito [Gesù Cristo] andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione; essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l'arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell'acqua.»).
    La questione arriva quindi aperta e in sospeso fino a San Tommaso d'Aquino, che dedicherà gli otto articoli della Quaestio 52, della Tertia Pars della Summa Theologiae, unicamente a questo tema. S. Tommaso utilizzò come fonti la Scrittura, s. Agostino, e il simbolo degli apostoli (che ormai aveva raggiunto la sua forma finale già da secoli). L'Aquinate conferma la veridicità della discesa agli inferi del Figlio (art. 1), nei quali ha sostato (art. 4) per liberare i progenitori e i Patriarchi (art. 5), ma non i dannati (art. 6), nè le anime del purgatorio (art. 8), solo che egli non pone la distinzione balthasariana, e identifica gli inferi con l'inferno dei dannati. Il merito di S. Tommaso è di aver riassunto lo stato della questione, le fonti a riguardo, gli argomenti e le obiezioni, in modo sistematico e in un sistema coerente, tuttavia difficilmente potremo dire che ha detto l'ultima parola a riguardo, soprattutto perché rispondeva a una sensibilità diversa, e su diverse questioni potremmo avere dei dubbi (in primis sulla sorte dei bambini non battezzati di cui parla all'art. 7).


    La Croce, anello di congiunzione


    Il descendit è la conseguenza logica della Croce del Figlio, ed è per questo che non è possibile ometterlo, seppur tale formula fosse nota anche in ambiente semi-ariano (con un altro significato evidentemente). Se il Figlio si fosse veramente incarnato, e avesse veramente assunto la natura umana per portare salvezza all'umanità, in che modo avrebbe potuto salvare l'uomo dalla morte e dall'oblio degli inferi senza parteciparvi?
    «Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono.» (Mt 27,51-52). La morte di Gesù è evento di liberazione dalla morte, è mors contra mortem, e la Croce è il simbolo di questa morte vivificante. La Croce è il perfetto segno di unione tra la realtà orizzontale della vita umana, nella sua fragilità, e la realtà verticale della vita divina, portatrice di una vita altrimenti inaccessibile: nella vicenda del Figlio incarnato la storia di Dio e la storia dell'uomo trovano il loro punto di incontro.
    Nella Croce i cieli, la terra e gli inferi vengono "accordati" al suono della melodia celeste, affinché ogni giusto possa lodare il Signore per la sua giustizia, e cantarne il nome (Sal 7,18). La Croce di Cristo (non una qualsiasi) è la vera axis mundi, l'anello di congiunzione tra Dio e uomo, segno della comunione totale che Dio ha voluto con l'umanità. Omettere questo aspetto del triduo pasquale è una forma di (più o meno velato) docetismo: se il Figlio non è andato agli inferi a portare ristoro alle anime di coloro i quali sono morti "prima" di Lui, allora non ha condiviso la natura umana nel suo aspetto più terribile, la mortalità.
    E non solo per l'aspetto fisico di decesso del corpo, ma anche per l'aspetto psicologico che ci porta a temerla, la paura che tutto finisca, che il Nulla abbia il sopravvento, che l'oblio sia totale. Gesù Cristo stesso ebbe la medesima paura nell'orto degli ulivi (Lc 22,44), mostrandoci così oltre ogni dubbio la totale assunzione della natura umana.
    Eppure la vicenda gesuana non si limita all'aspetto umano, ma nella divino-umanità di Cristo l'uomo può intravedere la promessa di vita eterna per sè: «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione.» (Rm 6,4-5). Se si volesse mantenere religiosamente la figura di Gesù, per l'aspetto morale del suo insegnamento, negandone però l'aspetto divino, si perderebbe la portata rivoluzionaria della rivelazione cristiana, poiché è proprio dal connubio della natura divina e della natura umana in Gesù Cristo che si prospettano le ramificazioni morali e spirituali della buona novella. Se Gesù Cristo non fosse Dio (consustanziale al Padre e allo Spirito), la morte rimarrebbe irredenta (secondo l'adagio dei padri cappadoci "ciò che non è assunto non è redento"), la fede sarebbe vana, i vangeli sarebbero narrazioni edificanti privi di un significato profondo, e le conseguenza più diretta sarebbe il moralismo farisaico (di cui le sette ariane odierne sono imbevute non a caso). Il cristianesimo non avrebbe nulla da offrire di diverso dalla moltitudine di religioni e filosofie che la storia umana conosce.
    La Croce può essere vista quindi come il nuovo e vero albero della vita, che molte tradizioni religiose primitive avevano annunciato senza svelarne il più profondo mistero, cioè la solidarietà di Dio con l'uomo. Nonostante il rifiuto, nonostante la storia del peccato, la Croce ricorda all'uomo che la sua storia è una storia di salvezza, poiché «laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20).


    Prospettiva: L'importanza interreligiosa del “descendit


    Bene, poniamo che per assurdo vi abbia convinti, e siate d'accordo con me che il descendit sia importante per i cristiani, per una visione coerente dell'evento pasquale. Che ricadute ha però questo articolo di fede per la teologia? Secondo me ne ha uno molto interessante nell'ambito della teologia cristiana delle religioni, cioè la riflessione (a partire della rivelazione cristiana) sul valore e sul destino delle persone che appartengono a una religione diversa (ma possiamo applicare il medesimo ragionamento ai non credenti).
    Seguendo le argomentazioni di Balthasar, distinguiamo tra lo sheol, cioè l'inferno di chi non ha conosciuto Cristo, e l'inferno dei dannati, cioè l'inferno che è conseguenza del rifiuto di Dio da parte dell'uomo. Il non cristiano che non ha ricevuto l'annuncio (ma io mi sento di aggiungere anche chi lo ha ricevuto, ma proposto in modo indegno o addirittura imposto), non può vivere il secondo tipo di inferno, poiché è oggettivamente "prima" di Cristo, mentre la dannazione è la conseguenza speculare alla salvezza per chi l'ha rigettata.
    La sorte post-mortem del non cristiano è il primo inferno, e se il descendit è veramente parte della nostra professione di fede, allora non possiamo che concludere che Gesù Cristo liberi dallo sheol l'uomo giusto, il quale però non ha potuto conoscerlo per contingenze cronologiche o topografiche (o di altro tipo).
    Questo ci chiama a una responsabilità grande nell'annuncio, come anche nella considerazione delle persone che non conoscono il Dio unitrino: non più infedeli da ammaestrare, bensì (come affermano ripetutamente le costituzioni Nostra Aetate e Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II) fratelli nella condizione umana con i quali condividere la gioia di un Dio che ha speso tutto sè stesso per l'uomo.
    Il Sabato Santo richiama ancora una volta il cristiano a non confondere i confini visibili della Chiesa con dei confini soteriologici, bensì lo chiama a testimoniare la salvezza per ciascuno e ognuno degli uomini e donne che si impegnano nella ricerca e nella concretizzazione del bene, del vero e del bello.

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